Walter Veltroni - QUANDO CADE L'ACROBATA, ENTRANO I CLOWN
“Quando cade l’acrobata, entrano i clown” è una sensibilissima riflessione, sotto forma di monologo, sulla tragedia dell’Heysel.

Dal retro della copertina:
E’ notte. Un uomo è sul terrazzo di una stanza d’albergo sul mare; è qui per festeggiare il suo decimo anniversario di matrimonio. La donna dorme. L’uomo ripensa alla loro storia d’amore, a una relazione costruita sulla sincerità. Ritorna con il pensiero agli anni trascorsi e a un’unica bugia: un viaggio. Aveva mentito sulla destinazione, per vedere una partita di calcio: la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool, a Bruxelles. L’uomo ripensa a quella partita, allo stadio malandato dove si svolgeva, l’Heysel. Ritorna al dramma di una vicenda che doveva essere allegra e giocosa, grandi e bambini insieme per condividere una passione. E che invece era diventata una battaglia, un insensato perdersi della ragione nella cecità della violenza. La parola Heysel avrebbe da allora significato morte: 39 morti e seicento feriti innocenti. Una strage immane per una partita di calcio, una ferita aperta e non più rimarginata. Nonostante la strage fosse già consumata, si era deciso, per motivi di sicurezza, di giocare egualmente.
Walter Veltroni ci offre con questo libro un toccante monologo, una narrazione lirica volta a ricordare una strage assurda, che ha stravolto tutto ciò che di positivo lo sport rappresenta. E lo fa con misura, attraverso lo sguardo commovente di una storia d’amore.

L’ho letto tutto d’un fiato… e ad un certo punto ho trattenuto il respiro… mi sono sentita impotente e in preda alla paura dinnanzi l’avanzare del drappello degli hooligan:
“Loro sono tanti, rumorosi.
Loro sì, sembrano dei professionisti.
Sembrano marinai di mille navigazioni.
Devono aver incontrato corsari e marosi.
Devono aver fatto mille battaglie.
E per ciascuna inciso un tatuaggio sul petto.
Devono aver bevuto mille birre.
E masticato mille tabacchi.
Sono lupi di mare.
Gente che molto ha visto e molto ha vissuto.
Guardali, tienili d’occhio.
Fanno canti rumorosi.
Che a noi, agnelli di pianura,
Non riescono a non far paura.
Sembrano un esercito, un esercito pronto per la guerra.
Ora non guardano più il campo, guardano noi.”

Ho proseguito la lettura… la descrizione della cieca violenza, della strage assurda perpetrata per nessuna ragione… la carneficina:
“Vedo un uomo con la gola aperta dalle punte metalliche della rete divelta.
Vedo una donna picchiata con l’asta della bandiera.
Vedo quell’uomo anziano che cade in ginocchio.
E un ragazzo spietato che lo colpisce con un mattone che tiene in mano.
Vedo un uomo piegato.
Sta con la sua bocca su quella di um bambino con la sciarpa bianca e nera al collo.
Sembra ignorare quello che accade intorno.
Sembra un angelo che si considera invisibile e impenetrabile dagli altri.
E invece gli altri lo vedono.
E siccome sono assassini e si nutrono di morte.
Lo travolgono, staccandolo dalla bocca di quella creatura.
Ne uccidono due in una volta.”

I corpi abbandonati, il sangue, la mancanza di valori nei gesti di quei “tifosi”, la stupidità di aggredire altre persone per un tifo diverso… per frustrazione, alcool o chissà per cosa…
La crudeltà di una guerra creata in un luogo di pace, il disprezzo per quella che è la cosa più importante, il dono più prezioso che ciascuno di noi ha: la vita.

Mi è mancato il fiato… ho dovuto fermarmi, chiudere un attimo il libro… restare immobile come decide di fare il protagonista nel tentativo quasi di estraniarsi da tutto quell’assurdo spargimento di sangue:
“Stai fermo, fatti invisibile. Sei lo scemo sulla collina.
Uno di voi tanti anni fa ha scritto:
l’uomo col ghigno da scemo se ne sta perfettamente immobile
Ma nessuno lo vuole conoscere,
Vedono che è solo uno scemo.
E lui non dà mai una risposta,
Ma lo scemo sulla collina
Vede il sole tramontare
E con gli occhi della mente
Vede il mondo girare.
Vedo il mondo girare, ma dalla parte sbagliata”
Vi amavo, assassini.
Perchè eravate la città dei Beatles.
Perché quella canzone finiva parlando di quelli come voi.
Diceva “Lui non li ascolta mai,
Sa che sono loro gli scemi”
Sì, siete voi gli scemi.
Noi moriremo ma voi finirete in galera”
(bellissima la citazione di THE FOOL ON THE HILL dei Beatles)

Fino all’assurdità finale di far giocare comunque una irreale partita…
“Entrano le squadre in campo, che magnifica allegria.
Ci vorrebbe la musica della passerella di Otto e mezzo.
Quando cade l’acrobata, entrano in scena i clown.
E’ la verità, siamo al circo.
Uno dei luoghi più tristi della vita.
Uno dei posti nel mondo dove nessuno è libero.
Le belve nelle gabbie, i pagliacci che devono far ridere per contratto.
I trapezisti che non possono sbagliare.
Il presentatore con quel vestito da buffone.
E il tendono che non può volare via…”

“E tutto per una partita di calcio”

“Erano belle giornate. Se ciascuno di noi avesse fatto ciò che era giusto… Ma non è stato così.
Perché il mondo spesso si smarrisce.
Si inventa guerre anche quando è in pace.”
“Un mondo che non è capace di giocare è condannato all’infelicità.
E alla violenza.
Quella che ruba la vita e prende a bottigliate il futuro.
Un mondo senza parole, solo urla.
Un mondo di clown sguaiati.
Senza la meravigliosa leggerezza del volo di un acrobata.
Senza il sogno, arrotolato come una bandiera sconfitta.
Senza anima, senza senso, senza speranza.”

Ma in mezzo a tanto male, tanto dolore, alla morte, alla cieca violenza, qualcosa di buono c’è: 2 persone che festeggiano 10 anni di matrimonio. Che si amano ancora e tanto. Un amore basato sulla sincerità. Un marito che ha un solo innocente segreto, una sola piccola bugia, un solo senso di colpa che non riguarda un tradimento o il denaro, ma una sincera passione per un gioco che si è trasformato non a causa sua in qualcosa di più grande di lui. L’amore che traspare nelle prime pagine del libro, con quella confessione sussurrata dal protagonista alla sua donna, che non lo può sentire perché dormiente e l’amore che si manifesta nelle ultime pagine (con quel “ti amo” sussurrato e quel “Buongiorno amore mio” ) alla fine vince sul sangue, sui guerrieri, su tutto.
Veltroni si dimostra scrittore di gran classe e di notevole sensibilità. Riesce ancora una volta ad emozionare.
VOTO: 8/10

L’UOMO CHE VERRA’

febbraio 6, 2010

L’UOMO CHE VERRÀ

Regia: Giorgio Diritti
Attori: Claudio Casadio, Maya Sansa, Alba Rohrwacher, Vito, Tom Sommerlatte, Eleonora Mazzoni, Raffaele Zabban, Orfeo Orlando, Diego Pagotto

Trama: Inverno, 1943. Martina, unica figlia di una povera famiglia di contadini, ha 8 anni e vive alle pendici di Monte Sole. Anni prima ha perso un fratellino di pochi giorni e da allora ha smesso di parlare. La mamma rimane nuovamente incinta e Martina vive nell’attesa del bambino che nascerà, mentre la guerra man mano si avvicina e la vita diventa sempre più difficile, stretti fra le brigate partigiane del comandante Lupo e l’avanzare dei nazisti. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1944 il bambino viene finalmente alla luce. Quasi contemporaneamente le SS scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti, che passerà alla storia come la strage di Marzabotto.

Film bellissimo. E’ un pugno nello stomaco anche se non si sofferma su particolari raccapriccianti, non ci sono scene di efferata crudeltà, ma piuttosto la tragicità quotidiana del vivere sotto le bombe e sotto la minaccia sempre presente di un invasore vicinissimo…Il regista sceglie di raccontare la strage dal punto di vista dei morti. Non dal punto di vista dei partigiani. Dal punto di vista di quelli che sono rimasti in mezzo. Tra partigiani e nazisti. Le persone, donne, bambini, padri di famiglia, che sono rimasti nelle campagne e non al fronte e che si sono ritrovati vittime di una guerra che non hanno voluto…
Bello e tristissimo.
Voto: 9/10

“NOI” a FERRARA

novembre 20, 2009

"NOI" a Ferrara

Barbara, WALTER, Paola

Crespellano, 7 Novembre 2009

Castello Estense, 6 Novembre h. 18 – Presentazione del libro “NOI” da parte dell’autore Walter Veltroni.

Cominciamo con il dire che Walter Veltroni è ME-RA-VI-GLIO-SO. Davvero. Quella di ieri a FE è stata la seconda presentazione di “NOI” a cui ho assistito.
Premetto che il libro non l’ho ancora letto causa impegno intellettuale pregresso che mi impedisce fino a fine Novembre di iniziarlo. E’ nella mia libreria con la bella dedica dell’autore, fattami l’11/9 (F.Democratica Bo).
Ma torniamo alla presentazione di venerdì scorso. Io vorrei stare ad ascoltarlo per ore e ore… vorrei fare quello di lavoro… l’ascoltatrice di Walter Veltroni… perché è una persona incredibile. Traspare la sua cultura, la sua semplicità, la sua purezza d’animo, la sua voglia di fare qualcosa per gli altri, il suo essere “NOI”.
Ed è per questo che vorrei ascoltarlo parlare per un anno intero… perché sento che quello che dice mi fa bene. Mi apre il cervello. Mi fa venire voglia di migliorare, di diventare una persona bella come lui.

Del suo discorso mi hanno colpito 3 cose:

Il discorso sull’ “IO, IO, IO”, sulle persone che non ascoltano più e che mentre parli non ti ascoltano perché pensano già a cosa diranno dopo. Mi ha colpito perché ha colto nel segno… cavolo.. io ascolto poco… parlo tanto, mi sfogo tantissimo e ascolto poco. Se ho un problemino anche sciocco, diventa la priorità, la cosa di cui parlare e sfogarsi con tutti… e se gli altri hanno un problema magari anche più grande… passa in secondo piano, perché il mio è più importante…………. È una cosa che mi è già stata rimproverata… e ammetto che è vera… vivo talmente sempre di corsa che a volte mi dimentico di “NOI”… e c’è solo IO… e forse ho impostato la vita in maniera sbagliata … solo sull’IO. Effettivamente IO sono molto IO. Non sto facendo niente per gli altri. Il lavoro porta via 8 ore della ns. vita tutti i giorni, poi ci sono le incombenze del tram tram quotidiano: fare la spesa, andare dal medico, passare in farmacia… e dopo? Dopo c’è il tempo dell’IO… la palestra perché bisogna scaricare i nervi, e poi la salute , il tenersi in forma è importante, e la lettura perché anche la mente va allenata sempre, la cura e l’igiene personale, la casa, il dormire… la manutenzione ordinaria della vita insomma… Nelle vite ordinarie insomma c’è sempre meno spazio per il NOI … Ultimamente ci penso spesso… mi piacerebbe fare qualcosa per gli altri, anzi per tutti, perché gli altri un domani saremo noi (prima o poi tutti avremo bisogno di qualcuno, perché prima o poi tutti diventiamo non autosufficienti… chi prima e chi dopo)… fare qualcosa per NOI. Dpo aver letto FORSE DIO E’ MALATO (sempre di Walter Veltroni) ancora di più mi è venuto da pensare che è vero ciò che dice lui all’inizio del libro: Non possiamo stare chiusi in una torre d’avorio chiudendo le persone sofferenti e bisognose fuori per vivere bene noi alla faccia degli altri…
Tutti dobbiamo fare qualcosa in più… e forse la fase iniziale è quella che sto vivendo anche io… il RISVEGLIO DELLA COSCIENZA…. Forse avevo la coscienza dormiente, profondamente dormiente e Walter ha iniziato a risvegliarla… Ora devo pensare a risvegliarla completamente ed iniziare a vivere NOI e non più dominata dall’IO… e vivere NOI partendo dalle piccole cose… cominciare ad ascoltare e comprendere gli altri, e poi una volta riaperto il cuore all’ascolto, forse sarà il momento di agire in prima persona, facendo qualcosa che ora non so fare… cercando di svegliare anche le coscienze assopite delle persone attorno a me… e assieme diventare un’enorme NOI cosciente che fa qualcosa per altri “noi”…

Il brano che ha letto da NOI su Dio …
il bambino che nell’oscurità della sera, prima di dormire, si interroga se Dio esiste.

Arrivati a casa, a Roma, Giovanni si affacciò subito alla finestra. Da lì aveva visto la guerra, il 25 luglio, la deportazione degli ebrei, la Liberazione, la morte di suo padre. Era il suo osservatorio sul mondo e sulla storia. E gli dava orgoglio che con lui ci fosse un altro ragazzo, un nuovo ragazzo, che gli assomigliava.
Prima di andare a dormire Giovanni chiese ad Andrea di seguirlo. Salirono le scale e arrivarono al terrazzo condominiale. «Vedi, questo era il posto dei miei sogni. Durante la guerra non potevamo mai venire qui a guardare le stelle né a osservare le luci della città che dorme. Era un paradiso perduto. Con tua madre, dopo, qui abbiamo passato ore e ore a parlare. È qui che eravamo soli davvero. Forse è qui che ci siamo accorti di amarci. O, meglio, io l’avevo sentito dal primo momento. Dopo la deportazione non riuscivo a capire se lei si appoggiava a me per solitudine o perché sentiva qualcosa nel cuore. D’estate la sera ci portavamo due sedie quassù e ci sentivamo i padroni di tutto. Era la nostra casa. Non aveva tetto o forse il più bel tetto di tutte le case del mondo. Pensavamo all’umanità in pace e non riuscivamo a immaginarla. Quando vedevamo passare le luci di un aereo ci promettevamo di viaggiare in luoghi lontani. Una sera mi chiese se l’uomo sarebbe mai arrivato sulla Luna. Sembrava una favola, un sogno irrealizzabile. Ora dicono manchino pochi anni. Quel giorno voglio essere con lei, qui. Ora il mondo è cambiato, la gente sembra voler usare la scienza non per distruggere ma per scoprire. Le persone sorridono, non hanno più paura. Hanno voglia di vedere il futuro, ma non per scappare dal presente. Noi avevamo fretta, perché ci lasciavamo dietro il fuoco dell’inferno che ancora ci inseguiva. Forse quella voglia di vita, di pace, ha fatto ora il mondo così com’è». Prima di dormire Andrea aveva chiesto al padre di fargli vedere dalla finestra il luogo preciso in cui i nonni materni erano stati prelevati dai nazisti. Giovanni indicò con il dito tutto il tragitto, la posizione dei camion neri, la collocazione delle SS che avevano chiuso il quartiere ai lati. Si misero a letto e spensero la luce. Fu dopo un po’, quando si era girato su un fianco per prendere sonno, che Giovanni sentì la voce del figlio: «Papà, ma allora Dio non esiste».
Non era una domanda, sembrava una affermazione, incerta forse, ma una affermazione. «Perché lo dici, Andrea?» disse Giovanni riportandosi supino. «Perché se esiste è cattivo. E se è cattivo non è Dio». «Cioè»? e questa volta a deglutire fu il padre. «Cioè mi avete sempre detto che tutto dipende dalla sua volontà. E allora perché ha consentito che succedesse tutto questo? Perché ha lasciato che degli innocenti fossero sterminati? Perché la nonna e la bisnonna hanno dovuto morire in quel modo? E perché tanti bambini sono stati portati nelle camere a gas? Me lo avete detto voi, l’ho letto sui libri di scuola e l’ho visto in tv. Perché Dio è cattivo»? La voce di Andrea sembrava sull’orlo del pianto. Come se avesse appena scoperto di essere più solo, come se avesse capito per la prima volta che oltre i genitori non c’era nessuno che si prendesse cura di lui, di lui e degli altri esseri umani della terra.
«No, Andrea, sarebbe troppo facile per noi umani. Se noi potessimo fare ogni cosa e poi attribuirne la responsabilità a Dio. Siamo noi, con i nostri gesti quotidiani, con le nostre scelte, che facciamo la vita nostra e degli altri. Siamo arbitri del nostro destino. Dio ci ha dato la possibilità di vivere, ci ha fornito i principi in base ai quali orientare la nostra esistenza, ci garantisce un premio per la correttezza dei nostri comportamenti. Ma Dio non è responsabile della follia di Hitler né di quella di Mussolini. Come non è responsabile dell’uomo che uccide la moglie o delle malattie che tanto dolore ci provocano. Siamo noi i registi del destino sulla terra. Dio ci ha fatto e ci giudica».
«Ma non è onnipotente? Lo dicono anche le preghiere. E non è infinitamente buono? Per quei bambini lasciati morire lì, Dio non è esistito ». «Anche Gesù, suo figlio, è morto sulla croce. E anche lui disse: ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato’? Però hai ragione: Auschwitz è l’inferno della storia dell’umanità. L’uomo ha prodotto un tale abisso di dolore che niente sarà più come prima. È come se gli artefici di quei campi di sterminio avessero voluto dimostrare di cosa l’uomo è capace quando perde proprio quei valori che Dio ha fatto scrivere sulle tavole. Le camere a gas non dimostrano che Dio non c’è. Dimostrano che è stato sconfitto. La sua onnipotenza non arriva a fermare la mano dei criminali. Forse dopo Auschwitz dobbiamo sentirci ancora più in colpa con lui. E forse dobbiamo ripensare il concetto di onnipotenza. Anche Dio può per­dere ». Ci fu un lungo momento di silenzio. Giovanni sentiva che Andrea stava pensando alle parole che erano volate, da una parte all’altra del letto, in quella stanza buia. Quel silenzio lo emozionò. Si ricordò di quanti pensieri analoghi, quanti interrogativi terribili sulla vita e sul futuro snocciolava con se stesso di notte, nella stanza che era oltre il corridoio. Pensò che è in quei momenti, buio e solitudine, che si fanno vive le paure più rimosse. Ma pensò anche che è in quei momenti che si cresce, che si costruiscono le difese e si rafforzano le certezze dei valori in base ai quali ciascuno decide il corso della propria esistenza. Quei dubbi fanno fondere corazze notturne, che non lasceranno mai chi le ha costruite e indossate. Per questo il silenzio di Andrea, come i suoi interrogativi, gli facevano amare ancora di più quel figlio che cresceva.
Ma il silenzio si spezzò, come un vetro crepato. «Io penso allora che Dio, durante Auschwitz, pregasse. Me lo immagino inginocchiato, davanti alla foto di un bambino impiccato, mentre prega. Ma noi preghiamo Dio. Lui pregava gli uomini. Che non lo hanno ascoltato. Onnipotenti, nell’orrore, sono stati gli uomini. Lui soffriva e non gli restava che pregare ». «Sì, è una bella immagine. In fondo il fatto che Auschwitz ci abbia mostrato la fragilità di Dio ci fa capire che solo se gli uomini si faranno davvero a somiglianza della sua bontà eviteranno la fine del genere umano».

Pezzo bello davvero. Struggente. Argomento già toccato in “FORSE DIO E’ MALATO”. Io sono credente. Pensare che Dio non esiste o se esiste non è buono perché ha permesso guerre, stermini, l’Olocausto… perché permette che bambini vengano seviziati da un medico pazzo, che donne vengano stuprate ed uccise alla fermata di un treno in un Paese civile come il nostro, che persone muoiano dilaniate da bombe, che lavoratori muoiano ogni giorno sul posto di lavoro… Ma non è così, non è Dio che è malato o cattivo o non esiste. Siamo noi che consentiamo che queste cose accadano. Siamo noi con le nostre azioni quotidiane, con la nostra indifferenza, con il nostro essere IO e non NOI. Perché non è Dio ma siamo noi che ce ne freghiamo degli altri, siamo noi che abbiamo consentito ad un megalomane senza morale di fare leggi razziali, e siamo noi che pensiamo solo ai soldi per cui se un’azienda per costruire una casa ci fa risparmiare 50.000 € a perché non rispetta le più elementari norme di sicurezza e/o occupa dipendenti in nero facciamo finta di non saperlo…siamo noi che consentiamo ai datori di lavoro di lucrare sul sangue dei loro operai, perchè c’è una classe politica che non fa niente per impedire che questo avvenga… ma noi non facciamo niente per far sì che questa classe politica cambi e faccia qualcosa…

Olocausto. Io e Walter abbiamo una cosa in comune. Anche io nella mia libreria ho una sezione dedicata alla tragica storia degli ebrei. Anche io non riesco assolutamente a capire PERCHE’? Come sia potuto accadere. Non me lo spiego. E anche per me è un po’ un’ossessione. Tutto è cominciato con il Diario di Anna Frank letto alle medie. Ho pianto e ripianto. Mi ha toccato nel profondo sentire che a Water veniva il groppo in gola a parlare di quei bambini su cui sono stati fatti atroci esperimenti. Avevo già sentito parlare di Mengele ma non conoscevo la storia che ha raccontato lui sui bambini di Bullenhuser Damm di cui ha messo la foto nel libro). Mi vengono i brividi. E ancora oggi se pensao ad Anna Frank chiusa in quel nascondiglio, china su “quelle” pagine, ai suoi pensieri, alla sua adolescenza non vissuta e rubata. …
Poi la mente va a Micol, e al GIARDINO DEI FINZI CONTINI … alla tristezza e all’imminente morte che pervade tutte le pagine dello struggente libro di Bassani…….
Ieri sera approfittando della conferenza io e Paola siamo andate a cena in un’osteria del ghetto ebraico… ovviamente – e per fortuna – non è più un ghetto, ma resta un posto molto suggestivo da vedere e che comunque evoca pensieri profondi.
L’ultimo libro sulla tragedia degli ebrei che ho letto è stato IL ROGO DI BERLINO di Helga Schneider, che è una scrittrice la cui madre era una convinta nazista (era nelle SS), e che ora vive a BOLOGNA. Di suo avevo già letto anche “IO, PICCOLA OSPITE DEL FUHRER” sul suo incontro con Hitler nel bunker. Questa settimana ho acquistato il Diario di Hetty Hillesum che non avevo mai sentito nominare. Ho letto i bellissimi versi che Walter ha messo all’inizio di FORSE DIO E’ MALATO … non sapevo chi fosse e cosa avesse scritto. Quei versi mi hanno colpito per la bellezza e la profondità… l’ho cercata su internet e ho scoperto la sua storia (scrittrice olandese ebrea deportata nei campi di concentramento). Il suo Diario è già nella mia libreria… e, quando il 1° Dicembre si porterà via il pregresso impegno letterale che mi sta occupando ogni momento libero, sarà il secondo libro che leggerò dopo “NOI”..

Il commento è lungo ma mi sono svegliata stamattina con un piacevole ricordo di un amico che ieri per la seconda volta si è prodigato per squotere, svegliare la mia coscienza assopita……
Tornerei ad ascoltarlo anche oggi a Grosseto perché “ho bisogno delle sue parole, ho bisogno di questo scuotimento”… ma mi sono ripromessa di andare alla terza presentazione solo con cognizione di causa e cioè dopo aver letto il libro……………per cui dovrò attendere almeno Dicembre per cibare ancora la mia mente con i suoi dialoghi d’autore…….

Finalmente una stella riluce nell’oscurità totale del desolato panorama musicale attuale… La stella di Brian Molko e dei PLACEBO: FOR WHAT IT’S WORTH è il singolo che preannuncia il nuovo album.
Testo cupo e significativo. Video semplice ed efficace.
A Giugno uscirà l’intero album “Battle for the sun”…

VIDEO:
For What It’s Worth

Testo “For What It’s Worth”

The end of the century
I said my goodbyes
For what it’s worth
I always aim to please
But I nearly died

For what it’s worth
Come on lay with me
‘Cause I’m on fire
For what it’s worth
I tear the sun in three
To light up your eyes

For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth

Broke up the family
Everybody cried
For what it’s worth
I have a slow disease
That sucked me dry
For what it’s worth
Come on walk with me
Into the rising tide
For what it’s worth
Filled a cavity
Your god shaped hole tonight

For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth
For what it’s worth

No one cares when you’re out on the street
Picking up the pieces to make ends meet
No one cares when you’re down in the gutter
Got no friends got no lover

No one cares when you’re out on the street
Picking up the pieces to make ends meet
No one cares when you’re down in the gutter
Got no friends got no lover

For what it’s worth
Got no lover
For what it’s worth
Got no lover
For what it’s worth
Got no lover
For what it’s worth
Got no lover
For what it’s worth
Got no lover
For what it’s worth
Got no lover
For what it’s worth
Got no lover

Got no friends got no lover

TRADUZIONE “PER CIO’ CHE VALE”
La fine del secolo
Ho pronunciato i miei addii
Per ciò che vale
Ho sempre aspirato a piacere
Ma sono quasi morto

Per ciò che vale
Dai stenditi con me
Perchè sono in fiamme
Per ciò che vale
Squarcio il sole in tre
Per illuminare i tuoi occhi

Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale

Ho distrutto la famiglia
Tutti hanno pianto
Per ciò che vale
Ho una malattia lenta
Che mi ha prosciugato
Per ciò che vale
Dai cammina con me
Nella marea che sale
Per ciò che vale
Ho riempito una cavità
La tua buca a forma di dio stanotte

Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale
Per ciò che vale

A nessuno interessa quando sei fuori, sulla strada
Raccogliendo i pezzi per rimetterti in sesto
A nessuno interessa quando sei giù nelle fogne
Non ho amici non ho amante

Per ciò che vale
Non ho amante
Per ciò che vale
Non ho amante
Per ciò che vale
Non ho amante
Per ciò che vale
Non ho amante
Per ciò che vale
Non ho amante
Per ciò che vale
Non ho amante
Per ciò che vale
Non ho amante

Non ho amici non ho amante

TERRORE

febbraio 11, 2009

Cristiano Godano

Cristiano Godano

Martedì 10 febbraio 2009 ore 21 – Struttura Polivalente “Le notti di Cabiria” Via Santi angolo via Calari

TERRORE – Happening per io narrante perduto in un immaginario claustrofobico.

Protagonista: Cristiano Godano (voce e chitarra, leader dei Marlene Kuntz).

Il secondo dei sei racconti del libro di Cristiano Godano è un lungo monologo in cui il protagonista in presa diretta accompagna il lettore alla catastrofe che sa vivendo, chiuso fra le quattro pareti in picchiata eterna di un ascensore che non si ferma più. Il reading dà voce a questo terremoto emotivo coinvolgendo l’ascoltatore, quasi lo stesse vivendo in prima persona. In una lunga discesa in cui musiche, suoni, rumori e parole concitate danno corpo alle varie atmosfere che il protagonista affronta. Questo il commento sul depliant che illustra i singoli appuntamenti di “FILI DI PAROLE 2009”, nella realtà… è stato proprio così: lettura davvero coinvolgente e ANGOSCIANTE…  è stato come essere assieme al protagonista sull’ascensore in picchiata eterna… partecipi dei suoi pensieri, prima di stupore, poi di rabbia, partecipi delle sue azioni autolesionistiche… e partecipi della sua rassegnazione e della sua agonia finale… prendere l’ascensore stamattina è stato più difficile del solito…

Cristiano Godano

Cristiano Godano

 

Cristiano Godano

Cristiano Godano

 

Cristiano Godano

Cristiano Godano

il-mercante-dacqua(fonte: dalla rete)

Un giovane, che gira il mondo zaino in spalla e si guadagna da vivere con piccoli lavori che gli consentono di continuare a viaggiare, si imbarca un giorno con dei pescatori di coralli e approda su un’isola semideserta. Lì decide di fermarsi. In realtà sull’isola un villaggio c’è e il giovane si trova di fronte una comunità felice, che lo accoglie e lo integra velocemente. La vita prosegue serena fino a quando l’acqua nei pozzi comincia a scarseggiare e poi si esaurisce completamente.
Nell’isola di Terrasecca – questo è il suo nome – c’è anche un padrone: Melebù. Vive in una villa al centro dell’isola circondata da bodyguard e soldati in divisa. Il suo pozzo è l’unico ancora pieno. Per ottenere l’acqua della sopravvivenza, il villaggio decide di accettare il ricatto di Melebù e vendere tutti i pozzi vuoti in cambio di lavoro remunerato con secchi d’acqua (lui organizza una stazione di rifornimento d’acqua per le navi in transito dove fa lavorare gli abitanti dell’isola).
Melebù ha tutte le caratteristiche di un imprenditore ottocentesco, è un “capitalista classico” e vede nei lavoratori soltanto manodopera da sfruttare per ricavarne il massimo profitto. Alla sua morte subentra il nipote, che decide di prendere in considerazione le richieste salariali e sociali del villaggio. La vita sull’isola sembra così migliorare. Anche perché il nuovo padrone permette agli operai di diventare consumatori dei propri prodotti e crea in questo modo nuove esigenze di consumo. Fioriscono nuovi stabilimenti, la pubblicità e i primi fast food: la rincorsa ai consumi disgrega però la comunità-villaggio e i pozzi sono ormai in buona parte avvelenati dalla plastica e dai pesticidi. Un gruppo di ribelli convince allora gli abitanti a boicottare i prodotti industriali e a procurarsi da soli ciò di cui hanno bisogno. Per ritornare al vero vivere, come all’inzio.

LIBRO STUPENDO

VOTO: 09/10

Il Berlusca e l’OTTIMISMO…

novembre 29, 2008

TRAVAGLIO è un mito………

rogoberlino(fonte: dalla rete)

In questo libro, Helga Schneider, ci fa rivivere i momenti più tragici della guerra e del Nazismo dal punto di vista di una piccola bambina. Infatti racconta, a cinquant’anni di distanza, l’infanzia passata nella guerra,: la solitudine dei collegi, le angherie della matrigna, la fame, la sete, la paura dei bombardamenti, l’incontro con il Führer nel bunker della Cancelleria…

Helga viene abbandonata con il fratellino dalla madre, che lascia marito e figli per entrare da volontaria nelle S.S.

Il padre di Helga a breve si risposa e poi parte per la guerra. La piccola Helga e il fratellino Peter si trasferiscono nell’appartamento della matrigna Ursula nella Friedrichsruher Strasse. La matrigna è giovane e non è in grado di tirare su due bambini piccoli. Usa con Helga e Peter due “pesi” e due “misure” diversi: quando sbaglia lui, trova sempre una scusante; quando a sbagliare è la bambina la punisce pesantemente. Helga, senza l’affetto dei genitori si sente sola e indesiderata tanto da tentare invano la fuga. La matrigna la fa rinchiudere prima in un istituto poi in un collegio.

La bambina cresce priva degli affetti familiari e, quando Ursula la va a riprendere lo fa per portarla in un luogo peggiore: uno scantinato dove regnano fame e sete, a condividere la paura delle bombe con altre persone. Solamente il nonno Opa, protegge la bambina, facendole sentire il suo affetto e difendendola di fronte alle ingiustizie della matrigna. Opa, rappresenta l’unica fonte di calore che Helga ha a disposizione in quel freddo mondo.  I bombardamenti si susseguono e ogni giorno la situazione peggiora, anche andare a rifornirsi di acqua diventa pericolosissimo… A poco a poco Helga conosce i vari frequentatori della cantina e descrive minuziosamente la vita là dentro… dover trascorrere il tempo sdraiati perchè privi di energia a causa della mancanza di cibo e acqua, il dover fare i bisogni in un secchio, il condividere lo spazio con persone sofferenti, ammalate. Drammatiche le descrizioni dei cadaveri straziati trovati nell’orto in una delle rare uscite dallo scantinato o visti lungo le strade assieme ai cumuli di macerie della Berlino sotto assedio. E ancor più straziante il racconto dell’arrivo dei russi e dello stupro delle due ragazzine con conseguente morte della gia debilitata Erika.

Un libro struggente e vero che lascia una domanda senza risposta nella testa: “Perchè? Perchè gli uomini sono in grado di arrivare a tanto?”

VOTO: 9/10

Dolce come il cioccolato

novembre 17, 2008

dolce-come-il-cioccolato

Quello scritto da Laura Esquivel con garbo, freschezza e ironia è un romanzo dalla struttura originale e curiosa: dodici capitoli abbinati ai mesi e costruiti intorno ad altrettante ricette, per rievocare un’inestinguibile e contratata passione amorosa. Fin dal loro primo incontro, poco più che adolescenti, Pedro e tita vengono travolti da un sentimento più grande di loro. Purtroppo, a causa di un’assurda tradizione familiare, per Tita il matrimonio è impossibile: ma per umana volontà e con la complicità del destino, lei e Pedro si ritroveranno a vivere sotto lo stesso tetto come cognati, costretti alla castità e tuttavia legati da una sensualità ancora più accesa. Nasce così una lunga serie di peripezie, che sarebbe ingiusto (e impossibile) riassumere: basti sapere che lo scenario è quello del Messico d’inizio secolo, messo a soqquadro da Pancho Villa; e che protagonisti sono anche l’inflessibile madre e le due sorelle di Tita, le domestiche Nacha e Chencha, un affascinante ufficiale ribelle, un medico di buon cuore e una coloratissima moltitudine di persone, fanstasmi e animali. In questo paesaggio ricco di magie e di passioni, il cibo rivela appieno i suoi significati, i suoi segreti e i suoi poteri: perchè le squisite ricette preparate da Tita affondano le loro radici in un passato mitico, che non ha perso il suo antico vigore; perchè quest’antica sapienza ha infuso negli accostamenti degli aromi la capacità di accendere e risvegliare desideri, ricordi e sentimenti; perchè quando parlare è diventato impossibile, torte di compleanno e peperoni farciti alle noci, timballi battesimali e quaglie ai petali di rosa possono trasmettere lusinghe e dichiarazioni, confessioni e seduzioni, fino a diventare il veicolo di un’inedita comunione erotica. Frutto di una godibile sapienza narrativa e di una raffinata arte culinaria, DOLCE COME IL CIOCCOLATO racconta con grazia e allegria femminili un’indimenticabile storia d’amore, in cui il cibo diventa metafora e strumento espressivo, rito e invenzione, promessa e godimento. (Sopraccoperta di Marco Volpati)

La vita di Tita fin dall’inizio è fortemente legata alle lacrime e al cibo… “Raccontano che Tita era così sensibile che, già quando stava nella pancia della mia bisnonna, quando lei tritava cipolle non smetteva più di piangere; il suo pianto era così forte che Nacha, la cuoca di casa, che era mezzo sorda, lo udiva senza sforzo. Un giorno i singhiozzi furono talmente forti da anticipare il parto. E senza che la mia bisnonna potesse dire bah, Tita venne al mondo prematuramente, sul tavolo della cucina, gra gl odori del minestrone che stava cuocendo, del timo, del lauro, del coriandolo, del latte bollito, dell’aglio e, naturalmente, della cipolla. Come potete immaginare, la consueta sculacciata non fu necessaria, perchè quando Tita nacque già piangeva, forse perchè sapeva che, secondo il suo oroscopo, in questa vita le sarebbe stato negato il matrimonio…”

Tita crebbe in cucina, con la cuoca Nacha, che la nutrì e le insegnò l’arte culinaria. Tita si innamorò di Pedro e ricambiandola Pedro decise di chiedere la sua mano alla madre che però la negò perchè a Tita, ultimogenita, era negato il matrimonio: avrebbe dovuto trascorrere la sua vita occupandosi della madre. A Pedro fu offerta la mano dell’altra figlia Rosaura di 2 anni più grande. Pedro per stare vicino a Tita, che amava di un amore sconfinato, accettò. E i preparativi delle nozze iniziarono.
Tita si occupò con Nacha del pranzo nuziale: “impiegarono più tempo del solito perchè il composto non riusciva ad addensarsi a causa delle lacrime di Tita… E così, abbracciate, piansero finchè a Tita non rimasero più lacrime negli occhi. Allora pianse a secco, e dicono che fa ancora più male, come il parto asciutto, però almeno aveva smesso di bagnare l’impasto della torta, e potè passare alla fase successiva, che è quella del ripieno…” Il giorno delle nozze accadde un fatto strano: “una gran malinconia e un senso di frustrazione si impadronì di tutti gli invitati e li spinse in cortile, nei recinti, nei bagni e ognuno rimpiangeva l’amore della sua vita. Nessuno sfuggì al sortilegio e soltanto pochi fortunati arrivarono nei bagni in tempo; gli altri parteciparono a una vomitata collettiva al centro del cortile. Rosaura, tra conati di vomito fu costretta ad abbandonare il tavolo d’onore… cercando di attraversare il patio scivolò a terra e non rimase una sola parte del vestito che non fosse sporca di vomito. Tita ricavò da Mamma Elena una fenomenale bastonatura, come mai le era capitato di subire. Trascorse due settimane a letto per rimettersi dai colpi. Il motivo di un così colossale castigo era la certezza di Mamma Elena che Tita, in combutta con Nacha, avesse premeditato di rovinare le nozze di Rosaura mescolando un emetico alla torta. Tita non riuscì mai a convincerla che l’unico elemento estraneo erano state le lacrime versate durante la sua preparazione. Nacha non potè testimoniare a suo favore poichè quando Tita andò a cercarla il giorno delle nozze, la trovò morta, con la foto di un antico fidanzato tra le mani.

Il rapporto tra Tita e la madre è descritto da Tita stessa nel momento in cui cerca di procurarsi le quaglie per la ricetta delle quaglie ai petali di rosa… “Uscì in cortile e si mise a inseguire quaglie. Dopo averne catturate sei le portò in cucina e si accinse ad ucciderle, impresa per niente facile dopo che per tanto tempo le aveva allevate e nutrite. Fece un profondo sospiro e afferrata la prima le torse il collo come tante volte aveva visto fare a Nacha, ma lo fece con così poca forza che purtroppo la povera quaglia, invece di morire, si mise a camminare per tutta la cucina con la testa ciondoloni. Questa vista la fece inorridire! Capì che non si può essere deboli quando si uccidono gli animali: o si procede con decisione o si causa soltanto un gran dolore. In quel momento pensò come sarebbe stato bello avere la forza di Mamma Elena. Lei mmazzava così, con un colpo, senza pietà. Beh, a pensarci bene, forse no. Con lei aveva fatto una eccezione, aveva cominciato a ucciderla da bambina, a poco a poco, e ancora non le aveva sferrato il colpo definitivo. Le nozze di Pedro con Rosaura l’avevano ridotta come la quaglia con la testa e l’anima spezzata, e prima di far provare alla quaglia i suoi stessi dolori, con un gesto di pietà e con gran decisione, la finì rapidamente”. Gertrudis, un’altra sorella di Tita, dopo aver mangiato le quaglie alla salsa di rose, fuggì da casa in preda a sensuale furore, si rifugiò in un bordello e, infine rasserenata, diventò l’amante e la sposa di un compagno di Pancho Villa. Intanto Pedro e Rosaura ebbero un figlio. A Rosaura non venne il latte per nutrirlo mentre miracolosamente a Tita sì. Tita nutrì il piccolo di nascosto per non suscitare le gelosie di Rosaura e le ire di Mamma Elena. Quest’ultima però si accorse degli sguardi e della vicinanza tra Pedro e Tita e fece in modo che i due sposi andassero ad abitare altrove. Il piccolo, privo del latte che succhiava dal seno di Tita, morì. Alla notizia, Tita impazzì dal dolore. Di lei si occupò allora il Dott. John Brown che la portò via da casa e la salvò con il suo amore: “Lasci che le dica una cosa che non ho mai confidato a nessuno. Mia nonna aveva una teoria molto interessante. Diceva che, benchè nasciamo con una scatola di cerini dentro di noi, non possiamo accenderli da soli, abbiamo bisogno di ossigeno e dell’aiuto di una candela. L’ossigeno deve provenire, per esempio, dal fiato della persona amata; la candela può essere un tipo qualsiasi di cibo, di musica, di amore, di parola o di suono che faccia scattare il detonatore e accendere in tal modo uno dei fiammiferi. Per un momento ci sentiremo abbagliati da una intensa emozione. Si produrrà dentro di noi un piacevole calore che con il passare del tempo si andrà affievolendo, lentamente, finchè non sopraggiungerà una nuova esplosione a ravvivarlo. Ogni individuo deve scoprire quali sono i detonatori che lo fanno vivere, poichè è la combustione ch esi produce quando uno di essi si accende a nutrire di energia l’anima. Questa combustione è il nostro nutrimento. Se non scopriamo in tempo quali sono i nostri detonatori, la scatola di cerini s’inumidisce e non potremo mai più accendere un solo fiammifero. Se questo accade, l’anima fugge dal nostro corpo, va errando nelle tenebre più profonde e cerca invano di trovare nutrimento da sola. Non sa che glielo potrebbe dare soltanto il corpo che ha lasciato inerme e piendo di freddo… Per questo bisogna star lontani dalle persone che possiedono un fiato gelido. La loro presenza potrebbe, da sola, spegnere il fuoco più intenso, con il risultato che ormai sappiamo…

Naturalmente bisogna anche fare molta attenzione ad accendere i cerini uno per volta. Perchè se per una forte emozione si accendessero tutti insieme, produrrebbero un bagliore così intenso da mostrare più di quanto riusciamo a vedere normalmente; e allora davanti ai nostri occhi un tunnel splendente ci indicherebbe la strada che abbiamo dimenticato al momento della nascita e ci inviterebbe a ritrovare la nostra perduta origine divina. Quando abbandona il corpo inerte, l’anima desidera far ritorno al luogo da cui è venuta…”

A lungo Tita fu indecisa tra John, buono, semplice e devoto e Pedro, la passione viscerale, furiosa e impossibile. In un primo momento scelse John, ci furono i preparativi per le nozze, ma queste vennero rimandate a causa di un’improvvisa paralisi di mamma Elena che morì dopo poco tempo. Dopo la sua morte Pedro tornò a casa con la moglie e la figlia Esperanza e visse accanto a Tita in uno strano mènage a tre, che rimase invariato fino alla morte di Rosaura. Esperanza, libera come Tita di vivere il suo amore, sposò il figlio di John e andarono assieme via di casa, felici. Pedro e Tita, rimasti soli, decisero finalmente di sposarsi per regolarizzare un’unione mai ufficializzata. Ma non voglio svelare il finale…

VOTO: 8/10

Riserva di Sassoguidano

ottobre 12, 2008

Ringrazio di cuore il VENTURA TRAVEL per la magnifica gita guidata alla Riserva di Sassoguidano. Il contatto con la natura e il verde mi ha rigenerato. Resoconto del tour:

ORATORIO DI SASSOMASSICCIO (685m);

(fonte: mio N70)

L’oratorio è dedicato a Santa Maria e sorge nel punto in cui era posto il castello di Sassomassiccio, di cui non c’è più alcuna traccia. La facciata dell’oratorio è a capanna con ingresso architravato, ai lati piccole finestrelle e un rosone a semicerchio. Il campanile ha monofore sui 4 lati. Questa chiesetta è stata ricostruita nel ‘600 ed è famosa nella tradizione popolare per “l’eremita di sassomassiccio”: all’interno dell’oratorio, infatti, è sepolto il frate Antonio Francesco che nel 1690 restaurò l’oratorio rimanendovi poi per 29 anni in preghiera e penitenza.

CHIESA DI SASSOGUIDANO (705m)

(fonte: mio N70)

La chiesa è dedicata a S. Paolo e probabilmente è sorta sulle fondamenta dell’antico castello di Sassoguidano che a sua volta fu edificato su una primitiva costruzione difensiva. Il castello di Sassoguidano risale al XI-XII secolo e fu a lungo conteso fra le fazioni dei Gualandelli e dei Montecuccolo. Del castello non rimane alcuna traccia, forse a causa di movimenti franosi. La chiesa occupa il punto più alto del rialzo roccioso che fronteggia il Cinghio di Malvarone, in una straordinaria collocazione paesaggistica con vista sulla sottostante valle del fiume Panaro e del torrente Lerna. La struttura della chiesa è semplice: una breve scalinata conduce a un portale in arenaria sormontato da un architrave triangolare e sostenuto da mensole concave. Il cippo monolitico che sovrasta il portale, presenta delle incisioni a bassorilievo di difficile interpretazione: sembra compaia la data “1200”. Il portale è sovrastato da una piccola finestrella-rosone. La torre campanaria è a pianta quadrata e risale al 1600-1700 quando ci fu il rifacimento della chiesa.

BORGO “LA TORRE” (751m)

(fonte: mio N70)

Ai piedi della rupe su cui si erge Sassoguidano si trova un delizioso nucleo rurale a corte chiusa. E’ una costruzione del XVIII secolo, sorta su un precedente insediamento del Cinquecento. Il piccolo borgo è denominato “La Torre” per ricordare una torre non più presente, posta a controllo di questo tratto dell’antica strada checollegava Sassoguidano con Verica. Il borgo è costituito da 2 edifici che si affacciano su una corte interna allungata e stretta, nella quale probabilmente si svolgeva gran parte della vita sociale. All’ingresso c’è un ampio arco a tutto sesto affiancato da un più piccolo accesso. Su una pietra dell’arco d’ingresso è incisa la lettera T, iniziale di Torre. A sinistra dell’ingresso si trova un’oratorio con facciata semplice a capanna e portale sormontato da un rosone. Segue un lungo edificio di servizio agricolo collegato all’oratorio da un portico. Il nucleo abitativo è costituito da un rustico palazzo di dimensioni cospicue a due piani più sottotetto e con piano seminterrato destinato ai servizi. Su di esso elementi decorativi ed architettonici interessanti come una cornice di mattoni a dente di sega nel sottotetto, tipica del 1500, due portali, uno del 1500, l’altro del 1700. Sopra quest’ultmo ci sono tracce di uno stema gentilizio dipinto sulla fascia bianca intonacata che orna la parte superiore del muro esterno. Sul tetto un piccolo campanile a vela che fa pensare alla probabile presenza di una cappella all’interno della casa.

IL MULINO CORNOLA

PRANZO AL SACCO nel giardino accanto al mulino…